Gaetano Kanizsa è nato a Trieste il 18 agosto 1913, quando ancora Trieste apparteneva all’impero austro-ungarico, nel giorno del genetliaco dell’imperatore Francesco Giuseppe. Egli riassumeva molti caratteri di quell’impero, e di quella stagione culturale irripetibile che fu l’Austria-Ungheria dell’epoca.
Il padre, ebreo-ungherese, veniva da Nagybecskerek, oggi Zrenjanin, nel Banato (attualmente parte della Vojvodina, in Serbia): e nella città che avrebbe visto nascere i suoi figli parlava o tedesco o, a fatica, triestino, con la moglie, slovena elle vicinanze di Bovec, presso Caporetto.
Oltre a Gaetano, nacque a Trieste anche il più piccolo Sigismondo, scomparso undici anni fa, spirito pratico, grande lavoratore del vetro; che nutriva un misto di ammirazione e radicale incomprensione per l’attività del fratello, a cui aveva prestato le sue abilità pratiche.
Kanizsa compì gli studi classici a Trieste, ed ebbe modo di mettere in evidenza (come Fabio Metelli non mancava mai di sottolineare) il disprezzo per l’intelligenza e la creatività che a volte affligge la scuola, la quale riuscì a fargli fare gli esami di riparazione durante gli anni di liceo.
Mancando allora a Trieste l’Università, studiò Filosofia a Padova, dedicandosi alla psicologia sotto la guida di Cesare Musatti. Si può ricordare che i rapporti tra la psicologia triestina e l’Università di Padova erano già allora molto significativi. Musatti, peraltro veneziano, era stato lì avviato alla psicologia dal triestino Benussi; e il ricordato Fabio Metelli, triestino anch’egli, lo aveva preceduto di pochi anni alle lezioni di Musatti.
Kanizsa si laureò con una tesi in Psicologia sulle immagini eidetiche nella teoria di Jaensch nel 1938. La storia della scelta di questa tesi è curiosa: Kanizsa di famiglia modesta, aveva necessità di lavorare, e dopo un periodo di insegnamento elementare nel cuore dell’Istria, grazie a Musatti era riuscito ad ottenere una supplenza annuale presso il liceo di Conegliano. Si diceva che in quelle zone certe acque favorissero la formazione delle immagini eidetiche, di qui la proposta, con un pizzico di ironia, del suo mentore: perché non studiare, visto che si trovava là, il fenomeno? La ricerca di Kanizsa fu molto più seria di quanto la premessa potrebbe far pensare, e, dopo la laurea, la sua tesi si trasformò in una pubblicazione. Purtroppo, gli eventi storici e politici incalzavano. Kanizsa venne allontanato dall’insegnamento per le leggi razziali; riuscì, peraltro, lasciata Conegliano, ad ottenere una supplenza pressol’istituto magistrale di Rovigo, che tenne per quasi un anno, prima che il preside, fervente fascista, si accorgesse di essere stato ingannato.
Venne quindi privato anche della cittadinanza italiana, e inviato al confino a Buttrio. Ne fuggì nel 1943, per recarsi a Roma, e unirsi alla lotta clandestina. Qui ebbe la fortuna di avere l’aiuto di Luigi Meschieri, che attraverso dei trucchi burocratici, e con rischio personale, riuscì a farlo lavorare come ricercatore presso l’Istituto di Psicologia del Cnr di Roma.
In questo periodo potè così riprendere le ricerche di psicologia sperimentale e si dedicò particolarmente allo studio della percezione tachistoscopica. Svolse anche attività applicata, con lavori di ordine psicoattitudinale: per esempio fece la taratura italiana della scala Terman-Merrill.
Finita la guerra, in attesa che maturasse una qualche posizione universitaria, Musatti lo chiamò al Laboratorio di Psicologia dell’Olivetti di Ivrea, dove rimase fino al 1947. Ricordiamo che Adriano Olivetti aveva voluto nella sua azienda una serie di intellettuali (tra gli altri si possono ricordare Volponi, Ottieri ecc.), ritenendo, nella sua visione utopica dei rapporti tra industria e società, che comunque un intellettuale può sempre dare un apporto utile al mondo industriale, anche se proviene da una cultura non aziendale. Kanizsa non dimenticava peraltro l’impegno civile.
Fu in prima fila nell’organizzazione dei collegi-convitto Rinascita, una straordinaria esperienza educativa in questo dopoguerra destinata ai figli ed orfani dei partigiani. E possiamo ricordare che a dirigere il Rinascita di Milano pose Guido Pettener, suo primo allievo in senso proprio; e che a Pettener sarebbe succeduto Giuseppe Mosconi.
Nel 1947 Kanizsa vinse un posto di assistente all’Università di Firenze (Metelli dirigeva l’Istituto di Psicologia), e successivamente fu assistente di Musatti all’Università di Milano. Del periodo fiorentino ricordiamo alcuni lavori sulla stimolazione intermittente della retina, e in particolare il lavoro sulla polarizzazione del movimento gamma, divenuto un classico, di recente ripreso, anche a livello internazionale, e che abbiamo avuto il piacere di sentire citare appunto come classico la scorsa estate durante l’European Conference on Visual Perception di Pisa.
La sua attività scientifica era ormai quasi esclusivamente rivolta allo studio della percezione visiva, e le sue idee teoriche si erano progressivamente indirizzate verso le tesi gestaltiste, di cui fu per diversi anni, assieme a Metelli (il loro maestro Musatti si era relativamente distaccato da queste posizioni), il rigido custode. Famosa rimase una sua polemica con padre Agostino Gemelli (che pure nutriva una grandissima stima per questo giovane e scomodo interlocutore) sulla liceità di distinguere fasi nella percezione, come Gemelli, seguace della scuola post-wundtiana di Lipsia, di Sander, e legato alle tesi neotomiste, voleva. Una rilettura del lavoro in cui Kanizsa attaccava la posizione di Gemelli, comparso “Archivio” nel 1952 (e a cui Gemelli volle replicare in modo insolitamente mite, dato il suo carattere in genere poco tollerante) sarebbe ancor oggi estremamente istruttiva, in un tempo ancora molto segnato dal paradigma dello Human Information Processing.
La preminenza dei suoi interessi per la percezione visiva non gli impedì però di coltivare altre aree di ricerca. Così nel 1951 pubblicò un bel lavoro sull’attenzione condotto sul test di Toulouse Piéron a cui era molto affezionato, tanto che aveva pensato recentemente di ripubblicarlo; nel 1953 videro la luce due suoi importanti lavori sperimentali, uno su frustrazione e aggressività, un altro, famosissimo (fu ripreso a livello internazionale anche da Rohracher, nel suo celebre trattato di Caratterologia) sulle diagnosi di personalità, o meglio, sugli errori metodologici che possono compiersi in questo settore nella validazione di strumenti psicodiagnostici.
Egli dimostrò infatti che soggetti a cui vengano comunicate a caso diagnosi di personalità sulla base di finti test tendono comunque riconoscer visi. L’interesse più generale verso l’animo umano, la sua grandissima curiosità per i moventi che spingono le persone a comportarsi in modo spesso tante sorprendente, si rivelano anche in questa area di ricerca; e non deve stupire che per molti anni, a fianco della Psicologia generale, avrebbe insegnato per incarico, ma con grande passione, anche la Psicologia sociale.
Nel 1953 vinse la cattedra di Psicologia presso l’Università di Trieste, e vi fondò l’Istituto di Psicologia. L’aveva preceduto, in una Facoltà fondata appena dieci anni prima, un altro triestino, Ferruccio Banissoni, scomparso due anni prima, con cui aveva avuto modi di collaborare al Cnr a Roma. Fino all’arrivo di Kanizsa, aveva tenuto l’insegnamento per incarico il vecchio amico Fabio Metelli. Banissoni era stato il primo psicologo dell’Università di Trieste; psicologo applicato, non aveva iniziato un’attività di ricerca sperimentale. Fu questo merito di Kanizsa. Egli trovò come assistente come assistente a Trieste un allievo di Banissoni, Giorgio Tampieri; e successivamente fu raggiunto da Guido Petter, che si era laureato sotto la sua guida nel 1950 a Milano. Kanizsa non si sarebbe più mosso da Trieste; vi rimase sino al 1988, quando andò in pensione. Nel 1983, al momento della sua andata fuori ruolo, era stato salutato festosamente da tutta la psicologia italiana, in un memorabile convegno triestino conclusosi con una straordinaria cena sul Carso, in cui Musatti avrebbe dato il meglio di sé nel tracciare la biografia di “Tano”. Ne seguì un Festsschrit, curato da Gerbino, cui contribuirono alcuni tra i più importanti studiosi italiani, non solo percettologi. Nominato dopo la pensione professore emerito, Kanizsa seguitò a svolgere un’intensa attività di ricerca.
Il periodo triestino è sicuramente il più felice della ricerca di Kanizsa.
Vi è peraltro una continuità diretta tra le ricerche svolte a Milano come assistente di Musatti, e quelle del primo periodo triestino. In particolare l’attenzione di Kanizsa si doveva rivolgere a due temi, strettamente legati tra loro. Il primo è quello delle modificazioni delle qualità fenomeniche del colore, indotte da vari fattori figurali: rapporti tra le parti, caratteristiche del gradiente marginale, eguagliamento contro contrasto cromatico. Il secondo, a cui sarebbe stata poi legata la sua celebrità internazionale, è quello dei “margini quasi percettivi”, secondo il nome scelto allora da Kanizsa; delle figure anomale, come avrebbe preferito chiamarle a partire dagli anni ’70. Al periodo milanese risalgono ancora le sue ricerche sull’”effetto Musatti”, in cui evidenziava un importante paradosso legato all’induzione cromatica, e le sue ricerche sul gradiente marginale.
Il famoso triangolo con margini quasi percettivi (il primissimo nome dato è “margini fenomenici in assenza di discontinuità di stimolazione”) sarebbe invece stato presentato per la prima volta al X Convegno degli psicologi italiani di Chianciano, 10 e 14 ottobre del 1954). La pubblicazione degli atti di questo convegno potrebbe essere ricordata non solo per questo evento realmente storico, ma anche per la più originale storpiatura del suo peraltro storpiatissimo cognome, che qui compare come Ganizsa. Negli anni successivi, questi temi vengono affinati in un gran numero di ricerche.
Nel 1955, Kanizsa affronta un altro tema, che sarà poi sviluppato soprattutto da Metelli: quello della trasparenza fenomenica.
Alle osservazioni qualitative di Kanizsa, Metelli farà seguire il suo famoso trattamento algebrico, presentato per la prima volta a Salonicco nel 1969. La notorietà di Kanizsa su questi temi aveva varcato i confini nazionali, tanto che Wolfgang Metzger, che ne era grande estimatore (affettuosamente lo chiamava Spitzenbube, monello, per la vivacità irriverente con cui affrontava ogni tema che lo incuriosisse), gli affidò, unico autore non di lingua tedesca, la stesura del capitolo sulla fenomenologia del colore del suo monumentale trattato di psicologia. Di fatto, Kanizsa era ormai diventato il fulcro della ricerca percettologica italiana, sia come animatore di attività sperimentale, sia come punto di riferimento teorico obbligato. Le sue idee diventavano spesso il catalizzatore di importantissime discussioni scientifiche. Vogliamo qui solo ricordare il memorabile simposio sugli aspetti metodologici della percezione tenutosi a Palermo, nell’ambito del XIII Congresso degli psicologi italiani, nel 1961, i cui atti sono tuttora un punto fermo per tutti gli studiosi. In questi atti, del contributo specifico di Kanizsa, che peraltro era alieno degli interventi meramente tecnici, fine a loro stessi, va ricordata la sua delimitazione dell’ambito della percezione: “ … se il termine ‘percezione’ ha ormai acquisito significati così eterogenei da poter essere usato altrettanto bene in due contesti quali ‘percezione di un quadrato rosso’ e ‘percezione del mondo’, abbandoniamolo pure…”.
Di questo periodo sono altri due temi di ricerca, legati comunque sempre alla percezione. Il primo è sulle connessioni causali, sulla scia dei lavori di Michotte, con una serie di ricerche condotte con Metelli e Vicario: nella prefazione del suo ultimo libro Vedere e pensare, Kanizsa avrebbe ricordato il periodo in cui conduceva queste ricerche come uno dei più felici della sua vita. Il secondo, che lo avrebbe condotto a una garbata polemica con il suo maestro Cesare Musatti, era relativo al peso dei fattori empirici nell’organizzazione percettiva. Kanizsa, allora ancora strettamente legato all’ortodossia gestaltista, non negava a priori la possibilità di un intervento dell’esperienza passata nella percezione, ma di fatto continuava a produrre dimostrazioni sempre più belle, anche pittoricamente, della assoluta predominanza dei fattori autoctoni, come amava chiamare gli elementi strutturali, e dimostrava una specifica abilità una specifica abilità a demolire ogni contro argomentazione di ordine empirista. Di questa controversia con Musatti è testimone un volume uscito nel 1968, dell’Università di Trieste, come Festschrift per i 70 anni del Maestro. In questo volume troviamo i contributi degli appartenenti a quella che poteva ormai considerarsi la scuola triestina, in particolare vanno ricordati Tampieri, Vicario e Minguzzi, che da soli o in collaborazione con Kanizsa, lavoravano sugli effetti stereo cinetici, sull’orientamento spaziale, sullo schema di riferimento…Non presente in questo volume, va comunque ricordato che da un decennio collaborava all’attività di ricerca dell’Istituto triestino Paolo Bozzi.
Verso la fine degli anni ’60 emerge con particolare evidenza un nuovo tema di ricerca, peraltro già anticipato nella spiegazione originaria delle figure anomale: il completamento amodale, e gli effetti dimensionali ad esso associabile. La contrazione, ma anche l’espansione in particolari circostanze, da completamento amodale vengono presentate per la prima volta rispettivamente nel 1970 e nel 1978. L’interpretazione che Kanizsa forniva dei fenomeni era associata al “principio minimo”, nella formulazione di Koffka. Anche qui, si può ricordare un curioso episodio da cui iniziarono queste ricerche. Erano soliti gli psicologi triestini riunirsi quando possibile in un’osteria nei pressi dell’Istituto, al “Collio”, dove, accanto a un bicchiere di vino, la discussione sui temi della percezione si faceva spesso serrata. In questo ambiente tipicamente triestino, le pareti erano rivestite in legno, grandi riquadri rettangolari, su cui erano posti gli attaccapanni. E Kanizsa doveva accorgersi che spazi di questi riquadri coperti dagli abiti apparivano nettamente contratti come dimensioni rispetto quelli liberi…La ricerca di Kanizsa aveva come sempre il suo punto di partenza nell’osservazione curiosa dell’ambiente che lo circondava e del comportamento degli uomini che aveva attorno.
Nel 1970, Gregory riscoprì il famoso “triangolo”, che ripubblicò dandone un’interpretazione empirista, a cui Kanizsa non poteva non ribellarsi. Era comunque l’inizio della celebrità internazionale di Kanizsa.
Kaniza scrisse sulle superfici anomale un articolo diventato immediatamente famoso su “Scientific American” nel 1976. Ma il “triangolo” stava diventando rapidamente il più studiato fenomeno percettivo degli ultimi due decenni. Su esso si dovevano scrivere scrivere in tutto il mondo centinaia di articoli, si dovevano organizzare congressi specifici, si dovevano accendere dispute. Nel 1987 Kanizsa avrebbe visto con grande piacere tradotto in inglese il suo famoso articolo nel 1955.
Insieme ai classici di Schumann e Ehrenstein, il lavoro di Kanizsa apre il volume curato da Petry e Meyer sui “contorni illusori” (il nome da loro scelto per i margini anomali), che ben riflete la mole di ricerche sperimentali fiorite negli anni ’70 e ’80 intorno al “triangolo”. La traduzione diede a Kanizsa l’occasione per un’importante autocritica, a distanza di trent’anni: la tendenza alla regolarizzazione non veniva vista più come fattore costitutivo a livello percettivo, in linea con un generale ripensamento sul ruolo della pregnanza nell’attività mentale. Nello stesso volume Kanizsa pubblica anche un lavoro originale, in collaborazione con Walter Gerbino, sulla dicotomia energetico-informazionale nella spiegazione delle figure anomale. Ancor oggi, ogni mese escono nuovi lavori che indagano la proprietà dei fenomeni, ne cercano le condizioni, ne studiano i correlati neurofisiologici, ne verificano la presenza ai diversi livelli evolutivi onto- e filogenetici, ne propongono nuove interpretazioni teoriche.
La fama internazionale di Kanizsa aveva già ricevuto una consacrazione decisiva con Organization in Vision, il libro in cui, nel 1979, erano stati raccolti i suoi saggi più importati. Il libro sarebbe poi stato tradotto anche in giapponese da Kaoru Noguchi. Possiamo affermare, tra l’altro, che in Giappone, paese in cui la ricerca percettologica è avanzatissima, Kanizsa è un vero e proprio mito, come ci ricordavano di recente dei colleghi nipponici. L’Istituto di Trieste ha spesso ospitato studiosi giapponesi, dal ricordato Noguchi a Yamada, che vedevano la possibilità di lavorare accanto a Kanizsa, come un’occasione irripetibile della loro vita scientifica. Mentre tutto questo avveniva, Kanizsa a dimostrazione di un’eccezionale elasticità mentale, lungi dal rinchiudersi sempre di più in un dogmatismo teorico vetero-gestaltista, anche grazie al contatto che sollecitava con i più giovani ricercatori, cominciava a rivedere le proprie idee teoriche. Esiste un filo diretto che collega alcuni lavori dell’inizio degli anni ’70, che individuano alcune differenze tra caratteristiche autoctone percettive e altre caratteristiche proprie dei fenomeni di pensiero (erroneamente attribuite alla percezione), e la formulazione esplicita, in un articolo comparso su “Acta Psychologica” del 1985, della necessità di distinguere tra processi percettivi e processi di pensiero. Importante, in questo senso, è anche un suo lavoro sull’”errore del gestaltista”, che percorre un’analisi più specifica. Le differenze tra vedere e pensare vengono dimostrate nel 1975 in lavori sulla segregazione di figure parzialmente sovrapposte; nel 1976 e nel 1982, con Gerbino , rispettivamente nell’articolazione figura-sfondo e nel completamento; nel 1985 nella percezione amodale.
Nel saggio originale scritto in apertura di Organization in Vision, diventato ormai un classico, sui “due modi di andare oltre l’informazione data”, emergeva l’idea teorica fondamentale che avrebbe segnato l’ultimo quindicennio della sua attività scientifica: la distinzione tra un processo primario, tipicamente percettivo, attraverso cui il campo si articola in unità distinte; e un processo secondario, implicante attività cognitive superiori, in cui avvengono il riconoscimento, la categorizzazione, l’attribuzione di significato. Veniva così compiuta la rottura con l’ortodossia gestaltista, alla cui tradizione si riteneva sempre comunque legato; soprattutto veniva rotto il dogma della inscindibilità dei processi di visione e di pensiero.
Fondamentali a questo proposito le ricerche sulla pregnanza, condotte con Luccio a partire dal 1984, con l’individuazione di una fondamentale ambiguità in questo concetto come definito dai gestaltisti, incerti tra una concessione in termini di “singolarità” o di “dimensionalità”, tra una pregnanza come processo e una come qualità fenomenica.
Quella che veniva affermata era una tendenza verso la stabilità percettiva, mentre si negava una tendenza una tendenza verso la costituzione di forme “buone”. Questa posizione teorica avrebbe suscitato la reazione polemica sia dei gestaltisti più ortodossi, come Arnheim o Zoltobrocki, sia dei costruttivisti, come Stader o Kruse. Ma la reazione anche vivace si accompagnava all’apprezzamento, tanto che nell’ambito stesso della Gestalt Gesellschaft gli sarebbe stato conferito nel 1987 il premio Wolfgang Metzger. Questa linea teorica sarebbe poi stata sviluppata con ricerche sul cosiddetto Höffding’s step, sull’auto-organizzazione, sul movimento apparente, che avrebbero avvicinato sempre di più la sua concezione teorica alle idee della sinergetica di H. Haken.
Su questa linea era il suo ultimo lavoro sulla multistabilità, ancora con Luccio, attraverso una serie di ricerche sperimentali sulle alternative stroboscopiche e sulla inversione figura-sfondo, e la presentazione di situazioni di radicale riorganizzazione improvvisa del campo percettivo ottenute attraverso il movimento. Questo lavoro, destinato a un convegno che si sarebbe tenuto a Brema dal 22 al 25 marzo 1993, fini di rileggere nella sua ultima stesura in un viaggio in treno da Bologna a Trieste la sera del 13 marzo. Poco dopo la mezzanotte veniva colpito dall’infarto che lo avrebbe portato via senza quasi dargli il tempo di accorgersi di quel che stava accadendo. Il convegno di Brema è stato dagli organizzatori Stadler e Kruse intitolato “in memoriam Gaetano Kanizsa”.
Molti altri sono stati i temi di ricerca da lui affrontati in questi ultimi incredibili anni di straordinaria attività sperimentale e teorica.
Ricerche sulla numerosità, sul contrasto, ancora sulle superfici anomale e sul completamento amodale, sulla pregnanza come ostacolo al problem-solving; interventi di filosofia della psicologia, messe a punto teoriche importanti sulla psicologia della gestalt e sui fondamenti della fenomenologia sperimentale. Particolare rilievo ha a nostro avviso un suo lavoro sul mascheramento visivo, del 1982, in contraddittorio con Vicario, forse meno noto perché pubblicato come Report.
Alcuni di questi lavori sono tanto recenti da essere ancora in corso di stampa. Se ne riparlerà in modo più disteso in un’altra occasione. Ma non sarebbe possibile chiudere questa nota senza dedicare almeno qualche parola a due aspetti rilevantissimi della sua attività ultima.
Kanizsa fu uno straordinario propulsore culturale della psicologia italiana: Ricordiamo che praticamente nell’ultimo decennio di vita della vecchia serie, fu lui l’anima della gloriosa “Rivista di Psicologia”. E quando questo organo, seguendo il destino della Sips, entrò in crisi irreversibile, nel 1973, con un gruppo di studiosi di lui tanto più giovani, Minguzzi, Vicario, Umiltà, Legrenzi, Luccio, Palmonari, si gettò nell’impresa del “Giornale Italiano di Psicologia”, prima rivista italiana (a dirlo oggi sembra incredibile) che pretendeva il giudizio di due referees per pubblicare un lavoro. Ma attorno al Gip nasceva anche un gruppo di lavoro di psicologia che avrebbe portato con l’editore Il mulino a scelte editoriali decisive per la psicologia italiana. E di questo gruppo Kanizsa fu animatore e leader indiscusso. E proprio da una riunione al Mulino del gruppo di lavoro veniva questo fatale 13 marzo. Già prima della sua collaborazione con il Mulino, Kanizsa aveva svolto un ruolo di grandissimo rilievo fino ai primi anni ’70 in collaborazione con Giunti Barbéra, promuovendo la traduzione di classici quali Wertheimer, Duncker, Lewin, Metzger, Werner… La sua attività non si limitava a questo. Kanizsa fu uno straordinario inventore di convegni scientifici. Alla fine degli anni ’60, entrata in crisi la Sips, e la struttura dei congressi scientifici degli psicologi italiani, Kanizsa creò gli incontri triestini sulla percezione, istituzionalizzando in modo informale (ci si scusi l’apparente contraddizione) degli incontri che già da diversi anni in modo più sporadico vedevano convergere nell’istituto triestino (e in memorabili spedizioni enogastronomie sul Carso) gli studiosi italiani di percezione, specie del triangolo Padova-Bologna-Trieste, di solito attorno a qualche studioso straniero (molto spesso Wolfgang Metzger, che non mancava occasione nei suoi frequenti viaggi in Italia di venire a Trieste). Quando l’impossibilità di organizzare congressi scientifici di psicologia divenne palese, Kanizsa trasformò gli incontri triestini in appuntamenti fissi on cui a partire dal 1969, tutti i ricercatori italiani, specie ma non solo in campo percettologico, trovavano l’occasione di trovarsi.
Il patto era che non si doveva parlare di ricerche già terminate, ma, nella massima informalità (il programma veniva formulato al momento dell’arrivo degli ospiti), di raccontare ciò che che si stava facendo, in modo da poter effettivamente utilizzare i suggerimenti dei colleghi.
Questi incontri, a cui immancabilmente era presente in prima fila Musatti, e che vedevano nei primi anni la presenza di amici e colleghi che, come Canestrari, non erano stati direttamente allievi di Kanizsa, ma non di meno lo consideravano il proprio maestro, furono un momento fondamentale per lo sviluppo di una psicologia scientifica italiana che, grazie anche al forte impulso quantitativo dato dall’istituzione dei corsi di laurea, stava profondamente cambiando.
I ricercatori più giovani non si riconoscevano più né nella tradizione gestaltica, né in quella gemelliana,, né in un comportamentismo, che in Italia peraltro non aveva mai di fatto attecchito realmente.
Il nuovo verbo era il cognitivismo; e Kanizsa, lungi dal chiudersi in un settarismo gestaltista, secondo il cliché che gli stolti e gli incapaci cercavano di affibbiargli, ascoltava con la massima attenzione queste nuove idee, e cercava di creare ogni possibile occasione di incontro tra giovane generazione e vecchia guardia. Di qui nacque la sua idea di organizzare nel 1975, ospite del Cnr di Roma, un convegno di confronto tra gestaltismo e cognitivismo, i cui atti, curati assieme a Legrenzi, costituiscono un punto di repere essenziale per che voglia capire la psicologia italiana di oggi. E un carattere e un rilievo analoghi avrebbe avuto il convegno di Bologna del 1987 sull’eredità della psicologia della gestalt, da lui voluto assieme a Nicoletta Caramelli e soprattutto Gianfranco Minguzzi, dolcissimo fraterno amico, che sarebbe scomparso immediatamente dopo questo incontro.
Non possiamo dimenticare però un altro lato straordinariamente interessante della sua personalità: quello del Kanizsa pittore. Aveva cominciato a dipingere quasi per caso una quarantina di anni or sono, ponendo punti neri sulla tela bianca, a formare, senza un progetto iniziale preciso, ma secondo uno sviluppo che si auto organizzava in corso d’opera, forme e strutture per raggruppamento, in ossequio alle leggi figurali.
Solo di recente, e solo in qualche quadro, aveva cominciato ad aggiungere (poco) colore.
Quest’attività di pittore era cominciata quasi per gioco, ma, negli ultimi anni, aveva raccolto significativi riconoscimenti, di cui egli era particolarmente orgoglioso. Aveva esposto anche alla Biennale veneziana.
Per “European Conference on Visual Perception” ad Edimburgo, gli era stato chiesto di organizzare una mostra a lato del Congresso. E stava già lavorando con entusiasmo su questo progetto.
La morte ha colto Kanizsa nel pieno del lavoro, scientifico e artistico; lo ha colto al termine di una giornata serena, trascorsa tra colleghi e amici. Il vuoto che lascia in noi, dal punto di vista umano, è incolmabile. Ma l’amarezza per la sua perdita come scienziato è sconfinata.
Non ci ha lasciato solo una grande eredità, ma soprattutto il grandissimo rimpianto di un lavoro interrotto ancora in pieno svolgimento.